Progetto Athanor >> Capo III: Arte, Società e Cultura secondo il pensiero di Luciano Pizziconi>> 3.10 Civiltà e Modello Culturale (Una intervista di Cristina C. Mihai a L.P.)
Civiltà e Modello
Culturale
Da Ottawa, un’intervista
di Cristina Catalina Mihai
al poeta e filosofo Luciano Pizziconi
Precede una breve
presentazione di Luciano Pizziconi
Lei ha un diverso punto
di vista su ciò che la cultura dovrebbe fare nella società, come unico e
complesso sistema. Come filosofo Lei ha introdotto l’idea di solidarietà
culturale.
Vorrei chiederLe di presentare questo concetto.
La sua domanda richiede un
ampio spettro di considerazioni. Comprendere, infatti, come la cultura
dovrebbe operare – e dunque perché non opera come dovrebbe coi suoi
modelli – è compito di noi tutti, poiché significa anticipare il futuro,
decidere l’avvenire.
Inoltre, per intendere e fare intendere – come direbbe Socrate –,
occorrerebbe stabilire prima “che cos’è questa x”, se è vero che quanto
più la “cultura” è citata tanto più resta incognita.
In effetti, nella nostra epoca, il termine non fa più distinzione tra la
sostanza e gli scarti, considerate l’avversione e l’obsolescenza che
appunto i “modelli culturali” vigenti, indotti dalle oligarchie
planetarie, propagano in ogni strato sociale e a tutte le latitudini,
non certo disinteressatamente o per sola ignoranza o ebetudine. Talché,
questa concezione onnivora della “cultura”, ma di nessun peso specifico,
ricade nella definizione “corrente”, e facilmente falsificabile, di un
“Io” appesantito e tuttavia inconsistente, perché reso labile e
manipolabile proprio da quel che introduce e produce.
Ciononostante, qua e là, ancora si avverte un uso accorto del termine,
una ricerca dell’originaria accezione, che implica una severa
decantazione da ogni superfluità ed eccedenza per giungere alla
concezione «aurea», alla definizione vera. Il che, talvolta, rende
oggettiva la diversa valenza che una stessa parola può assumere nei due
contesti, i quali sono del tutto estranei uno all’altro.
In questo secondo livello di ‘percezione’, se così posso dire, il
soggetto acquisisce una co-scienza che della cultura è la sintesi alta.
Purtroppo, come dicevo, è invalsa la “corrente” opinione che essa
rappresenti non più che un additivo per i salotti, un evento elitario,
un clamore di fondo o un ospite indesiderato, secondo la caratura...
Mentre invece ogni società è lo specchio medesimo del proprio modello
culturale o, meglio, dei valori e dei disvalori che questo sarà capace
di alimentare e trasmettere.
Ciò considerato, in una situazione di generale avvilimento, che si
acuisce per l’inarrestabile espandersi di una realtà multietnica e di un
sistema globalizzato ma privo di fondamenti etici condivisi, diviene di
vitale importanza riconoscersi in un modello esente da logiche inquinate
e inquinanti. In altre parole, ridefinire l’essenza e le funzioni della
cultura, ristabilirla nel suo humus originario, perché siano
radicalmente modificate le successive strutture e sovrastrutture,
mentali e sociali, che i cattivi modelli han prodotto e fossilizzato.
Occorrerebbe, dunque, un comune denominatore non soggetto a opinioni e
contraffazioni, un «Modello autentico di relazione» il cui valore fosse
universalmente condivisibile nella civiltà che è alle porte e che, ora
come allora, è un ‘Inizio’.
A questo punto, vorrei qui citare una frase tratta dai miei “Scritti
sull’etica dei linguaggi”: «Se verità è relazione, allora la cultura è
amicizia e l’accoglienza è linguaggio...»
Una proposta di riflessione, se vuole.
Comprenderà perché il mio “punto di vista” in merito alla «Cultura», e
al tessuto relazionale continuo che vi ritengo connesso, non poteva
trovare “appigli” nei modelli costituiti, i cui “a priori” si mostrano
funestamente fallaci negli interessi e negli indirizzi, di provenienza
estranea e di alienata fattura. Tali “a priori”, infatti, falsificando
l’ottica dei rapporti che l’ego intrattiene con tutto ciò che si pone
come ‘altro da sé’, inibiscono l’esperienza, recidendo il «Cum» senza il
quale ogni conoscenza è posticcia, perché priva dei contenuti emozionali
immediati che stabiliscono l’uomo nella sua verità e umanità più
profonde.
Ciò che vorrei evidenziare, in definitiva, è che il “mal-essere”
esistenziale è culturale, e sta nella cancellazione della memoria
comune, nella perdita di empatia dell’«Origine», che rende incapaci di
percepire e di vivere la complessità del ‘tutto’ nella semplicità
dell’‘Intero’. Forse, mantenere armoniosamente unito questo insieme di
legami e di vincoli, tale dovrebbe essere il compito finale della
cultura e dei suoi modelli, perché senza nucleo nulla permane, e non c’è
ricordo, sentimento o nozione che resistano al tempo.
Pertanto la mia idea di «Cultura», in quanto sintesi
di valore intersoggettivo e sovraindivudiale – e perciò referente di
tutti i soggetti e di tutte le relazioni –, vuole unire ciò che il cieco
opportunismo degli interessi particolari si ostina a voler dividere per
un residuo animalesco di impulsi, che appaiono “razionali” nel falso
modello che li giustifica a agli apparati che lo amministrano.
Quanto all’essere solidali, è mia convinzione si tratti di un
istinto nobile prima che di una necessità culturale, poiché, senza tale
carattere distintivo all’origine di ogni forma comunitaria, non si
potrebbe neppure teorizzare alcuna complementarità, convivenza e
condivisione.
Tantomeno tecniche o filosofie, sia pure imperfette.
Se questo è vero, si può ritenere che il vincolo solidale sia il fulcro
della complessa eredità collettiva che diciamo «Cultura», l’antecedente
ab-origine.
In tal caso non soltanto esso costituisce l’apice di ogni valore, ma il
«valore di relazione» implicato che esalta la pienezza di ciascun
rapporto che l’uomo idealizza o intrattiene, perché opera nella
«Memoria».
Quindi uno «stato permanente della coscienza», che investe
l’universalità degli aspetti dell’organismo sociale preservandone la
salute e l’integrità, e che diviene «Modello» etico necessario allorché
la sua carenza od assenza dimostra l’insolvibilità di ogni altra forma
esogena di garanzia o sub-valore.
Si può dunque affermare che «senza solidarietà non si dà cultura», ma
dis-valore soltanto... Sicché ogni atteggiamento che esuli da tale
implicazione, porrebbe di fatto coloro o colui che lo assume fuori del
consesso umano e di qualunque prospettiva morale, quale ne fosse la
razza o la religione, la dottrina o l’ideologia, che resterebbero
invalidate dalla negazione stessa di un principio innegabile.
Lei utilizza delle
parole che sono frequentemente utilizzate per la lingua moderna, quali
“civiltà occidentale” o, se si desidera, parole come “comunione” e
“relazione”. Ma il significato attribuito ad esse è un po’ diverso, più
profondo, e va al di là della tipica comunicazione orizzontale e
verticale.
Vorrei chiedere a Lei di ampliare il concetto di “comunione”, che è
fortemente legato a quello di “paritarietà di linguaggio”.
Come già Le ho accennato,
le parole del mio lessico hanno una collocazione specifica nel contesto
delle mie riflessioni e, mi auguro, la precisione ontica necessaria ad
evitare fraintendimenti. Ritengo mio dovere, infatti – e mi sforzo di
vigilare l’intento –, non soltanto di esprimere il mio pensiero in forma
adeguata, ma di non condizionare il giudizio dell’interlocutore con
alcun artificio.
A tale scopo, e quale che sia l’argomento prescelto, impegno al suo
servizio i medesimi strumenti in mio possesso, affinché sia non soltanto
possibile una complessiva ed autonoma valutazione ma, da qualunque
ottica ci si ponga, risalire dal particolare all’intero. Il che, sia
pure sommariamente, può dirLe cosa intendo per «paritarietà di
linguaggio», e mediante quale percorso l’‘Io’ ed il ‘Tu’ debbono sì
cercare, ma anche desiderare, l’identità di valore e di senso.
Ciò detto, proverò con un brevissimo esempio a completare la mia
risposta.
Sappiamo, o possiamo facilmente intuire, che tutto, nel nostro mondo, è
«relazione». La premessa implicita di ogni equilibrio sta dunque nella
complementarità di azioni ed intenti, per cui la ‘comunicazione’, quale
che sia la forma espressiva adottata, tenderà a condividere
simbolicamente l’esperienza del «Valore» ab-origine, a viverlo in
comunione. E ciò, come Lei ha osservato, va oltre la comunicazione
verticale e orizzontale, perché alimenta un dinamismo virtuoso, un
linguaggio del «Noi», e dunque una sollecitazione emotiva tra tutte le
componenti e i livelli della sfera psichica e sensoriale, investendo
nella quotidianità dei rapporti sia gli aspetti sociali che religiosi
della collettività e gli individui. Come vede, la stretta connessione di
termini che nella mia scrittura sono di uso frequente richiederebbe una
analisi suppletiva, perché il compito affidato a ciascuna parola non è
dedotto unicamente dalla sua area semantica, ma risulta dalla
interazione di due o più elementi sintattici... E non tanto allo scopo
di ampliarne la risonanza quanto con la finalità di intensificarne il
rapporto con il «Valore» di provenienza, di cui abbiamo detto già
precedentemente.
Reputo, quindi, che l’impressione di ‘profondità’ che Lei ne riceve sia
forse da attribuire ad una sua naturale disposizione, che perciò trova
in tali sequenze una forma efficace corrispondente.
Quello che è molto
impressionante è il fatto che il “Progetto Athanòr”, l’organizzazione di
cui Lei è presidente e fondatore, si è impegnato a “portare la cultura
in strada”, o, in altre parole, nel mondo reale. In tal modo Lei e i
suoi collaboratori hanno realizzato molte manifestazioni, al fine di
sostenere gli “esclusi” della società. Ha aiutato con denaro, e non
solo, persone con la sindrome di Down, malati di cancro, bambini del
Terzo Mondo, lebbrosi..
Qual è la rilevanza culturale di questi eventi, per il beneficiario e il
donatore?
In
quanto «Modello autentico di relazione», il vincolo solidale dovrebbe
operare nelle coscienze, cioè a monte di quegli squilibri di cui soffre
l’organismo sociale, prevenirne le cause. Stabiliti i principi teorici,
tuttavia, tali argomenti dovevano trovare una qualche forma di
applicazione e confronto perché, come Lei sottintende, il “il mondo
reale” ha bisogno di esempi tangibili e l’impegno intellettuale, in
effetti, deve poter tradursi in azione autorevole. È sulla scorta di
queste considerazioni che il “Progetto Athanòr” ha ideato e finanzia
annualmente gli “Itinerari di solidarietà e cultura”, che si svolgono in
diverse tappe, sia in Italia che all’estero, secondo le disponibilità.
Si tratta, comunque, di modesti interventi, il cui scopo vuol sì
contribuire a limitare gli effetti delle discrasie in atto, ma la cui
finalità è di mostrare – e provare a correggere – le soggettive e
collettive carenze. Ciò non significa che la solidarietà ha fallito, o
che sia un compito destinato ad eroiche minoranze, ma che il potere sa
meglio gestire gli allettamenti dei “modelli culturali” vigenti, che ci
rendono troppo vulnerabili agli egoismi e troppo poco chiamati a
rispondere del bene comune... che poi è il solo «Bene».
Obiettivo dell’Athanòr, dunque, non è tanto la cura quanto la
prevenzione, se così posso dire, di questa “disattenzione” non lieve.
Sicché debbo onestamente affermare – per rispondere alla sua domanda –
che dal mio punto di vista, sia per i donatori che per i beneficiari, la
rilevanza di questi eventi dovrebbe restare in sottordine rispetto agli
auspicati sviluppi delle loro implicazioni possibili.
Lei si è mosso da un
concetto teorico che Lo ha portato all’impegno attuale.
Ma come tutto questo è iniziato?
Ho imparato a mie spese che
nel mondo non c’è verità, e questo mi era intollerabile, perché non
avrei saputo come indirizzare la mia esistenza, a che ideale votarmi. In
mancanza di meglio, ho dovuto assumere il governo di me stesso, essere
il mio “maestro”.
Tornando alla sua
personalità, Lei è un tecnico per educazione, ma un umanista per
vocazione.
La prego di descrivere il percorso che Lo ha condotto a questi successi.
Che cosa ha determinato la scelta di impegnarsi contemporaneamente nella
poesia e in filosofia?
Ho frequentato mal
volentieri l’Istituto Tecnico, con risultati che definirei
“discutibili”. Ma amavo la storia, la letteratura e la filosofia, che mi
hanno coinvolto sempre più in questo viaggio esaltante ed impervio che è
la conoscenza dell’uomo. Se ho trovato qualche risposta utile ai quesiti
irrisolti, da autodidatta considero questo un successo...
Quanto al binomio poesia-filosofia, è noto che sono cooriginarie, in
quanto la poesia nasce come forma espressiva privilegiata per l’indagine
delle cose alte, dalle metafisiche alle teogonie, dalla teoretica
all’ontologia, dall’epica religiosa alla profezia...
Purtroppo questo carattere denso della poesia si è perduto nelle nebbie
dell’insipienza, si è dissolto nella “filosofia” della cronaca spicciola
ed autoreferenziale.
Una delle missioni del
“Progetto Athanòr” è quella di difendere i diritti degli immigrati.
Ci dia alcuni esempi.
Tra una generazione o due,
che lo si voglia o no, non vi saranno più differenze tra immigrati ed
“autoctoni”, giacché non v’è spazio ulteriore, nel nostro tempo, per i
confini: siano essi politici, mentali o soltanto geografici. Per questo
più semplicemente mi impegno per i principi universali di libertà,
fraternità e dignità che – pur nella considerazione delle diverse
ascendenze culturali –, hanno piuttosto origine nella consapevolezza
della reciprocità degli obblighi prima che nel preteso riconoscimento
della reciprocità dei diritti, i quali seguono e non sono “a priori”
(per citare Simone Weil alla buona).
Ciò significa abbandonare quelle contagiose “categorie degli opposti” su
cui il pensiero occidentale ha cercato le sue fortune e trovato le due
disgrazie, perché un mondo globalizzato sotto l’egida totalizzante del
troppo “Io” non può sopportare al suo interno questa iattura... Deve
apprendere invece la «Regola» dell’alchimista, che considera ‘Via Regia’
la «coincidentia oppositorum».
Lei è stato in Romania e
deve avere almeno avuto un assaggio della cultura e civiltà rumene. Che
cosa Lo ha più colpito, e come ha intenzione di far comunicare le nostre
culture oggi, quando alcuni giornalisti non smettono di vedere in ogni
immigrato rumeno un probabile offensore?
Quel che
ho trovato in Romania mi ha colpito più per le somiglianze che per le
differenze: siamo figli della stessa terra e della stessa eredità
culturale. In merito alla seconda parte della sua domanda, ciò dipende
non tanto dagli indirizzi di pensiero quanto dalla privazione degli
strumenti autonomi del giudizio che il
SISTEMA
impone, pena l’emarginazione. Sono i sussulti del
PREGIUDIZIO,
che notoriamente è tra le residue risorse di quei
POTERI
che vedono vacillare le fondamenta della propria credibilità. Ovvero che
avvertono la decriptazione imminente e la caduta dei cosiddetti
MODELLI
CULTURALI che quei
POTERI avevano imposto.
Guardando al futuro,
quale sarà l’evento più vicino al vostro ordine del giorno?
Certamente, in aprile 2010,
l’Athanòr sarà in Romania per testimoniare non soltanto dei legami
trascorsi ma instaurarne di nuovi, altrettanto longevi e fecondi.
Grazie per l’attenzione
accordatami. Con rispetto, Cristina Mihai