Che cos’è il ‘Tempo eterno’
se non «Tempo sacro»?
Perciò dies si confonde con deus, e l’‘Essere’ (del
principio) si identifica col ‘Principio’ (degli esseri), cioè in un
«presente» ontologicamente fondato nella «Presenza».
È così che il segreto pulsare dell’esistente riassorbe in «Uno» il
puntiforme generarsi dell’attimo, fino a sospenderne l’eco esterna, a
contenerne la virtualità dell’origine e la sincronia delle sequenze
possibili.
Ma allora il «Tempo sacro» altro non è che la scansione lunga del «Tempo
vero», e cioè la cessazione di ogni profanata alternanza e cronologia di
significato e significante, l’annullato riflusso delle ambiguità
fenomeniche e dei linguaggi nel più quieto significare della
«Memoria»... Un ‘sapere anteriore’ che reinveste le forme di una
pulsione autonoma, di una valenza sorgiva, di una urgenza palingenetica.
Ed è in tale ottica amplificata - che affranca il fruitore da ogni
necessità oppositiva - che va interpretata, al di là delle innumeri
suggestioni, l’opera di Alfredo Barros, quale riepilogo-epilogo
dell’«Esperienza fondamentale», eredità da trasmettere e non “lezione”
ripetitiva.
Sicché, pur nel rigetto di scelte accattivanti, lasciando incorrotta la
spirale immaginativa, l’intimo vitalismo di Barros attraversa e
reinterpreta, integrandole del non-detto, le cadenze
stilistiche-culturali più significative, facendone traboccare umori
contemporanei non vincolati tuttavia al nostro tempo.
Di fatto, questo Autore è
capace di impulsi e connessioni inediti che, tra reperti del quotidiano,
interni elusivi e fascinosi paesaggi - sovente punteggiati da richiami
neoclassici di eleganza raffinatissima -, raggiunge un equilibrio
espressivo e una efficacia contenutistica di rara facondia, sì da
rendere accessibili e vulgate le più complesse simbologie e le più
articolate rappresentazioni.
Talché, sorvolando sulle evidenze di provenienza surrealista o verista e
volendo cercare altre privilegiate assonanze, se ne potrebbero trovare,
ad esempio (per quanto riguarda certe figure femminili), ne “La
toilette” (1906) e ne “Tre donne alla fontana” (1921), di
Pablo Picasso... Così come, per motivi diversi, se ne possono rinvenire
nelle tematiche di René Magritte, che immette nelle sue opere immagini
banali di cose familiari, accostate tra loro in modo da sovvertire
l’idea che di esse ci possiede a priori, suggerendo imprevedibili
relazioni e nuovi contesti. In tal modo la pittura si fa strumento
educativo per approfondire la conoscenza del mondo senza che venga meno
il mistero che spinge l’artista a indagarne i nessi reconditi e le
logiche non manifeste.
Vaniscono allora i confini tra “esterno” ed “interno”, tra contenuto e
contenitore, tra margine e centro, ripensati e/o dissolti nella
complementare reciprocità dei termini, così come il rapporto tra
l’oggetto e il nome che lo designa, altrettanto alterandosi i rapporti
di scala e le gerarchie nella mutazione implicata tra osservatore e
osservato e, dunque, le prospettive spazio-temporali e i vincoli imposti
dai “linguaggi diurni”.
Ciò detto, nella tensione
evocativa di Barros c’è un che di perennemente inquieto e inquietante,
come una sofferta aspirazione, un che di radicalmente «Altro» che
aleggia sotto l’apparente trasparenza delle metafore e delle maschere,
un sotterraneo dirompere di elementi che allusivamente rimandano dal
fisico al metafisico per connessioni invisibili... È forse l’ansia - sia
pure non conclamata - di comunicare il «Modello» che si è percepito...
ovvero di onorare l’impegno esaurendo il compito che l’artista assume
nel momento stesso che interroga il proprio daimon... e che la prima
risposta obbliga il suo intero percorso a un lascito irrecusabile di cui
l’«Opera» testimonia, ben oltre la vita, dell’Arte o dell’artificio che
ci sono compagni.
Villa Athanòr,
li 28.XII.08 |
Luciano Pizziconi
(Membro H.C. dell’Ass.ne Int.le Critici) |