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Progetto Athanor >> Capo III: Arte, Società e Cultura secondo il pensiero di Luciano Pizziconi>> 3.13 La tirannia del sistema. Breve analisi della “normalità”(discorso tenuto all’Università di Vest a Timisoara)
«La
tirannia del sistema» (discorso tenuto all’Università di Vest a Timisoara)
Sono il
Presidente fondatore del “Progetto Athanòr”, associazione le cui
iniziative intendono richiamare il nesso tra solidarietà ed etica dei
linguaggi, aspetti sui quali ogni forma comunitaria dovrebbe porre le
sue premesse, stabilendo nella reciprocità degli obblighi e nella equità
del diritto il privilegio di poter servire. Di là di ogni transitoria
apparenza, infatti, è soltanto nella mutualità degli intenti che l’uomo
riconosce l’Utile bene inteso, che sta sopra e al di là di ogni
provvisorio vantaggio, poiché l’attenzione con cui si osserva la realtà
circostante può mostrarci le urgenze di ordine esistenziale, ma non può
darci ragione delle problematiche connesse a una visione del mondo che
altera il concetto stesso di ‘relazione’ e ‘valore’, facendo regredire
il giudizio ad anni che si credevano dimenticati. Sicché, nella presente
occasione, considero un privilegio e un dovere partecipare ad una
iniziativa a sostegno dell’Associazione Casa Faenzia, che si occupa di
persone sofferenti di autismo, e di stabilire un fraterno rapporto con
tutti voi. Ma è appunto in una tale “normalizzazione” la misura falsificata di tutte le esperienze e interpretazioni che viola ogni vigilanza, giacché il soggetto non ha più orientamento, nelle sue relazioni, se non in quella burocrazia mediatica del sistema che ne ha spento il discernimento. In breve, ciò vuole dire che, una volta verificata, “normalità” non è altro che la coazione mostruosa di cui si avvalgono le strutture e il controllo per definire i processi funzionali al modello... i quali, affliggendo tutti e ciascuno, sia pure il diverso grado, introducono una valutazione impropria, della persona, che inerisce ormai l’ente e non l’essere, e cioè disumanizzando i rapporti proporzionalmente al procedere della irrazionalità della “logica” che dovrebbe alimentare all’infinito i profitti... ovvero direzionando l’uomo allo sfruttamento anziché all’unicità di valore. È quindi evidente che, all’interno di una tale area semantica di comunità e convivenza, tutti noi siamo causa ed effetto di una malattia ben più grave di qualunque limitazione organica volessimo considerare, che non potrebbe in ogni caso estendersi “fisicamente” ad altri né contagiare. Per cui, benché un diversamente abile rappresenti, anche malgrado la nostra sensibilità, il “diverso” rispetto ai quozienti attitudinali prestabiliti dallo standard produttivo, ancorché da altri canoni invalsi, noteremo che una eventuale difformità di giudizio, identificando una particolare “disabilita” rispetto alle categorie normative, costituisce la “carenza più grave”, l’automatismo dell’emarginazione e dell’espulsione. Ed è questa l’infermità che ci affligge: l’impossibilità ambientale di realizzare una somiglianza effettiva nella comune Diversità, e una comunione diversa nella effettiva Eguaglianza. È allora dalla “difformità” del disabile, così come dalla “disabilità” del difforme, la riflessione che ci deve costringere a sostare e a riconoscere che la malattia siamo noi, con i nostri linguaggi, le nostre categorie e i nostri abusi “normalizzati”. «Religio est relatio». Dunque si dovrà respingere l’asserzione che il sistema non è reversibile, e denunciare ogni passività come un crimine... perché quanto più l’omologazione e il progressivo isolamento dei contraenti ipostatizza il comportamento rispetto al prototipo che falsifica la persona, tanto più si estremizza quella infermità discorsiva che implementa la sconnessione tra diversità e somiglianza, identità e differenza, il che legittima la monetizzazione di qualunque valore e il totale inglobamento dell’uomo negli scarti del suo prodotto. Vi ringrazio, ho concluso
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